venerdì 28 maggio 2010

Tutto al contrario per fare tutto diritto

Tutto al contrario per fare tutto diritto!

«Dovremmo essere felici per la coppa del mondo, invece non siamo affatto contenti e vi spieghiamo perché». Thembani Jerome Ngongoma detto T.J. è il più loquace dei tre attivisti del movimento Abahlali baseMondjolo («Quelli che vivono nelle baracche», in lingua zulu) che in questi giorni sono in Italia per raccontare la loro protesta e fare «rete» con chi anche qui si ostina a voler cambiare il mondo dal basso. È lui il bomber dei «Mondiali al contrario», un'iniziativa architettata con la rivista Carta da due missionari comboniani residenti a Castelvolturno, Filippo Mondini e Antonio Bonato, un tour intensivo che dalla Calabria alla Val Susa sta toccando tutti gli snodi del dissenso e dell'antagonismo di base nel nostro paese. Per mostrare quello che non si vedrà mai alla tv e far notare come il mondiale sudafricano abbia già decretato chi arriverà ultimo, eliminato ancor prima che il fischio d'inizio risuoni nel Soccer Stadium di Soweto.

«Non chiediamo poi molto - ripete T.J. a ogni incontro -: terra per le nostre case, lavoro, bagni, acqua corrente, elettricità». Nata dopo gli scontri del 2005 a Kennedy Road, Durban, diventata sempre più forte e impetuoso man mano che si moltiplicavano le brutalità poliziesche e gli assalti in stile squadroni della morte (due morti e uffici distrutti nel settembre 2009, ma «in galera - ricorda T.J. - sono finiti i superstiti»), l'organizzazione denuncia le condizioni di vita spaventose negli slum che turbano la topografia dei grandi centri urbani e lotta per ottenere quel traguardo minimo che l'Anc aveva promesso fin dall'inizio: una casa dignitosa per tutti.
«È uno dei diritti garantiti dalla nostra costituzione - dice Tj -, una delle più belle del mondo ma anche una delle meno applicate. Noi l'applichiamo nel nostro piccolo, pratichiamo un modello molto evoluto di democrazia partecipata, il governo avrebbe molto da imparare. Certo non ripeteremo più l'errore di delegare qualcuno per ottenere quel che ci spetta. Vogliamo essere noi i partner del governo, i poveri devono poter decidere sulla loro vita perché sono i più esperti in materia. Abbiamo fatto passare troppi anni dal '94, è arrivato il momento per reclamare indietro lo spazio lasciato ai partiti... Se continuiamo a prendere il cibo dalle mani del governo siamo finiti».

La strategia a cui Tj allude è ben spiegata nel documentario proiettato durante gli incontri, Breyani and the Councillors di Sally Giles e Fazel Khan, che racconta gli inizi del movimento e il costume diffuso dei politici che di tanto in tanto distribuiscono un po' di cibo nelle bidonville. Magari è andata a fuoco la tua baracca, tuo figlio ha preso il colera a forza di frequentare l'unico bagno chimico a disposizione per 300 persone, ma tutto quel che ricevi dalle autorità è un pezzo di pane. Una focaccia indiana, come il consigliere che la invia. A Durban si chiama breyani e «lo stile breyani - dice T. J. - produce una mentalità da mendicante».

A L'Aquila, nello spazio «liberato» delle CaseMatte (mai come in questi giorni sotto minaccia di sgombero), le risonanze cominciano a propagarsi. Comune allergia al mix di repressione e assistenzialismo messo in campo dallo stato, disincanto rispetto alle promesse dei politici, tendenza a svolgere il ruolo che dovrebbe essere dell'opposizione, la necessità di praticare l'autorganizzazione totale. Per non dire dello tsunami «grandi eventi» e di un piano-case autoritario e centripeto che in entrambi i casi tende a sradicare le persone dai luoghi in cui vivono. Così le istanze del blocco di protesta sociale sudafricano più radicale e meno riconciliato si intrecciano con quelle del comitato 3e32, la battaglia dei baraccati sudafricani riverbera su quella dei terremotati aquilani, con scambio finale di t-shirt, foto e promesse di reciproci link. «Dobbiamo unire le nostre debolezze - incalza T.J. - imparare gli uni dagli errori degli altri. Se lo abbiamo fatto noi in Sudafrica lo possono fare tutti».

Della piccola delegazione fa parte anche Busisiwe, una signora che quando parla sembra tradurre in prosa la forza di un canto di lotta zulu. È lei a informarsi su quanto doveva essere dura la vita al freddo nelle tende, a preoccuparsi dei bambini. «Quando si inizia la lotta bisogna mettere in conto dolore, fatica, rassegnazione, sapendo che poi se ne esce fortificati. Siamo noi donne a incoraggiare i nostri figli quando vengono incarcerati. Forse perché siamo mamme, ma sappiamo come affrontare e superare il dolore. E sappiamo quando è il momento di gridare enough is enough, quando è troppo è troppo».
In platea, a ogni tappa del tour, ci si chiede inevitabilmente se doveva proprio finire così... Ma Mandela, che dice Mandela? «La vittoria ha portato libertà politica e di espressione, ma non certo la giustizia sociale - nota T. J. -. Quando Mandela ripeteva che la vera lotta iniziava da lì, eravamo troppo eccitati per starlo ad ascoltare. Eravamo liberi e il resto non contava. Solo poi abbiamo capito. Ora - prosegue - non abbiamo guru. Sappaimo di aver subito centinaia di arresti e neanche un'imputazione. Anche la corte suprema ci ha dato ragione nella causa intentata contro il governo. Certo, vorremmo sfruttare la visibilità che il mondiale offre, ma la repressione è durissima e la nostra prima preoccupazione sarà quella di proteggere la vita dei nostri attivisti. Probabilmente ci limiteremo a usare le t-shirt ufficiali dei mondiali per scriverci sopra il nostro messaggio, cose del tipo "no terra, no casa, no voto", "le città non sono fatte per i poveri". Una cosa è certa: il mondiale non porterà alcun beneficio ai poveri del Sudafrica». Anzi, a giudicare dalla foga con cui il governo sta bonificando le zone di interesse turistico, cercando di nascondere sotto il tappeto la polvere che si è accumulata nel frattempo, pare che porterà solo guai.

«Ai turisti - siega T.J. - non mostreranno mai le baracche e così potranno dire che tutto va bene, ma noi sappiamo che non è così». Intanto nella «bonifica» spariscono i settlement informali e vengono spazzati i venditori ambulanti dalle zone intorno agli stadi. Quello avveniristico di Durban è intitolato al leader del Pc sudafricano Moses Mabhida, ma per qualcuno tanto valeva chiamarlo «Pieter Botha». La città, come dice il recente numero sudafricano della rivista Meridiani, è pronta a «esaltare la sua immagine glamour di città sportiva, solare, vivace e vacanziera». Non sorprende che sia il movimento Abahlali sia nato proprio qui.

(Manifesto domenica 23 maggio 2010)


mercoledì 5 maggio 2010




Tanto per capirci

Caro Sindaco,

non ha cominciato nella migliore delle maniere il suo terzo mandato come primo cittadino. Incitare alla violenza razzista non è proprio un buon modo; riproporre ideologie stile Apartheid Sud Africano non è un comportamento corretto; auspicarsi che Castel Volturno possa diventare una Rosarno non è degno di un uomo che ha il merito di avere guadagnato il 53% dei voti.

Ma Lei caro sindaco, continua a parlare alla pancia, continua il suo squallido gioco emotivo come se per risolvere i problemi di Castel Volturno bastasse trasformarsi in sceriffo con le pistole ai fianchi.

Le sue affermazioni razziste ci spaventano. Lei in questo modo si sta assumendo tutta la responsabilità di gettare benzina su un fuoco già acceso, perché chiamare alla rivolta una popolazione Italiana già esasperata e sofferente, è solamente un atto da irresponsabili. Lo hanno capito anche i vertici del suo partito che hanno subito preso le distanze dalle sue allarmanti dichiarazioni.

Anche i cittadini Italiani soffrono. Soffrono per la mancanza di lavoro e di possibilità e sono lasciati a se stessi da Istituzioni ormai sempre più lontane dalle loro vite. I Servizi Sociali non hanno un soldo e sono così resi incapaci di affrontare i problemi reali della gente. Ma lei continua a dire che Castel Volturno è alla deriva a causa degli immigrati, confondendo così le carte in tavola, scatenando una inutile e illogica guerra tra poveri.

Lei ha attaccato tutte le associazioni che si impegnano a fianco degli immigrati e parte della chiesa. Ha affermato che questi soggetti sono la rovina di Castel Volturno. Oggi noi le rispondiamo con una sola voce. Ci siamo confrontati, abbiamo incontrato immigrati, abbiamo tenuto incontri e assemblee dove abbiamo discusso su cosa sogniamo per Castel Volturno. Se lei costruisce fossati e muri tra le comunità residenti sul litorale Domitio, noi vogliamo provare a costruire ponti. Non ci stancheremo di dialogare, di costruire lotte e percorsi che possono accumunare le sofferenze delle diverse comunità, di Italiani e di Stranieri. La disoccupazione, la mancanza di casa, la fatica a pagare le bollette, la voglia di fuggire da questa terra non ha colore. Per questo crediamo che si possa trasformare questa terra in una risorsa per tutti.

La mancanza di conoscenza genera paura e diffidenza; quando si è vicini ad una persona si impara a conoscerla e ad apprezzarla, si impara ad ascoltare e a cogliere altri punti di vista. Non abbia paura della “differenza” che gli immigrati portano su questo territorio, provi a parlare CON loro invece che solamente su di loro e vedrà che proverà vergogna per le sue affermazioni.

Forse capirà che ogni discorso riguardante l’immigrazione a Castel Volturno passa necessariamente per il Permesso di Soggiorno. Non si risolverà mai nessun problema se gli immigrati non possono ottenere il documento, se non hanno la possibilità di costruirsi una vita più stabile e sicura, finalmente più liberi da schiavisti e lavoro nero.

Caro sindaco, noi siamo disponibili a parlare e confrontarci con lei senza gettare altra benzina sul fuoco. L’accoglienza che abbiamo praticato in questi anni e che continueremo a praticare, ci ha insegnato che non è giocando sulle emozioni che si risolvono i problemi.